“L’ardore. La fiamma dell’amore che incendia ogni volta il tuo sguardo. Io che guardo ai colori delle mie sensazioni nei tuoi occhi, finestre sul mondo, porte verso te, l’ignoto, me stesso. Mi perdo mentre mi trasporti in campi coltivati, tra gli sforzi, i canti, le genti e gli animali che sfumando all’orizzonte, s’impastano con la terra, la farina e le pietre”.
“Anna, le scarpe che indossi ti reggono quel che basta per camminare nel palco di questa società. Ma sei sempre tu quella leggiadria, soffio di vento tra i vestiti? Le tue mani nella giacca, a nasconderne la forma; te ne vergogni e ne vai fiera di come si allunghino verso il mondo. A volte vorresti che potessero rompere quella barriera che separa le persone, stringendo salda la bandiera dell’uguaglianza.
La sera profumi di casa e posso dormirti affianco, sentire la tua pelle calda, il sangue scorrere e il tuo corpo bruciare. “Cosa hai fatto oggi?”, non ti lascio scampo, “Sei davvero reale?”, nell’ordine dei pensieri evoco la tua immagine e tu fuggi la verità”. E’ questo amore? Non desiderare più niente o volere tutto? “Le cellule del tuo corpo si allungano sul naso, si estendono nelle sopracciglia, si gonfiano sulle labbra, “Are you even real?”, non esiste parola che tu non possa trasformare in poesia. Sai disegnare il tempo, raccontare il vuoto con la tua sola presenza”.
“Che hai Petrov?”, “la sicurezza che non perdi mai nel dubbio è un faro nell’oscurità. Non spegnerla mai. Ho bisogno di te, del tuo amore per l’umanità, delle tue debolezze e paure. Sono felice perché vivo assieme a te il mio dolore, le delusioni che mi rendono insicura e scettica verso questo mondo irreale. Quando ti guardo non vedo più me stessa. Perdo le redini, almeno alcune mentre altre te le dono, e tu guidi il carro del Sole. Sono fiera a vederti per le mie strade, nei meandri del mio nulla dove cresce ciò che sono. Con te riesco a guardare l’amore. Un cerchio infuocato che non ha colore né appartenenza, pieno di persone che danzano, s’impastano e bruciano, arse. Non potrei mai vivere da sola in mezzo alla comunione. Desidero lasciarmi andare, morire per una volta per davvero. Morire per tutti coloro che mi credono qualcosa. Non voglio essere niente di preciso, di fatto, d’intatto. Voglio essere te, trasformarmi in una catena e perdere per sempre la mia identità”.
Al raccontare delle vicende interiori Anna e Petrov diventano illusioni della personalità. I loro confini strabordano come l’acqua nei campi di riso, cadono nei terrazzi a poco a poco e nutrono ogni pianta. Le vicende cosmiche degli astronauti sono le tragedie dell’umanità, dove l’individuo traccia una parabola intensa di una serie di capitoli senza fine, nel libro dell’infinito. Ogni contorno, oggetto della ragione, si irrigidisce e diventa come un coltello nella carne. Affonda precipitando verso il centro della resistenza fisica.
“Anche la goccia più piccola d’amore può far crescere un tronco saldo e sicuro, bruciare la malattia di voler vivere a tutti i costi. Lo sguardo così intenso al buio non genera luce, ma rende solido lo stato della morte. Esistono corpi che stanno assieme solo per l’immagine che hanno raggiunto, perché questa è immobile e reale. Quando la struttura del nostro corpo fisico è viva e rinnovata, si vivifica, e l’immagine non è più separata da noi. In qualche modo è possibile dare vita alle immagini così che queste risveglino un certo piccolo seme di chiaroveggenza individuale. Il nichilismo a cui tendiamo in questo secolo è una mente sottile scuroveggente, a cui dobbiamo dare la possibilità di ridistribuire luce”.
Petrov pensava, anzi non lo faceva più. Agiva il pensiero. Aveva cambiato posizione nei confronti del nucleo produttivo della realtà. Liberandosi della proprietà dell’azione era diventato un agente (astronauta), cioè un ente in azione. Si trovava verticale all’intuizione; coltivava le forze e le rigenerava. Non consumava solamente. Aveva imparato a togliere il contorno del significato dell’oggetto e riuscire così a vedere il mistero nella sua trasformazione.